(di Giacomo Bardazzi)
Quando ci si avvicina a un lavoro interiore nell'ambito della Quarta Via, si viene inondati da una grande quantità di informazioni e di strumenti che ci fanno sentire come uno che sa appena come cambiare una lampadina, davanti alla cassetta degli attrezzi del più esperto dei tuttofare - identificazione, non espressione di emozioni negative, considerazione interna e esterna, caratteristiche e tipo di corpo, centri inferiori e centro di gravità, essenza e personalità, attenzione divisa, centri superiori, cosmologia del raggio di creazione e tavola degli idrogeni... È comprensibile la confusione e la difficoltà a capire da dove cominciare, e non può che essere così, soprattutto se ci si avvicina senza l'aiuto di una scuola la possibilità di non comprendere o travisare è molto alta.
Un aspetto da considerare è che più che il sistema, siamo noi ad essere complicati: si arriva a un lavoro con la falsa personalità che è ancora forte, ed è necessario fare un po' di spazio per la semplicità dell'essenza. Oltre al fatto che certe idee possono essere comprese solo vivendole, abbiamo la tendenza a complicarle con le nostre opinioni, condizionamenti, e ritratto immaginario di come ‘noi’ e la realtà dovrebbero essere.
Un altro punto di vista è che il ‘centro formatorio’ pensa che per fare un lavoro è necessario comprendere ogni cosa. Un lavoro pratico non deve essere spiegato in ogni aspetto, altrimenti non faremmo lo sforzo di arrivare alla nostra personale comprensione. Se ci venisse spiegato tutto per filo e per segno sarebbe come leggersi un libro, e ci fermeremmo lì.
Al di là del tempo necessario per la digestione delle idee, un suggerimento è, piuttosto che di lavorare su più cose, quello di prendersi un piccolo scopo, solo quello, abbandonando tutto il resto. E ‘farne il proprio dio’, come diceva Gurdjieff. Può essere per esempio provare a non gesticolare. Tutto il resto metterlo da parte.
Il lavoro su di sé è tale che lavorando su un aspetto si lavora indirettamente anche su tutti gli altri. Il provare a non gesticolare può farmi vedere che non ci riesco, e quindi farmi verificare l’idea che ‘non possiamo fare ‘. Posso vedere l’auto giudizio, e l’auto commiserazione. Se uso lo shock del vedere le mani che si muovono posso avere un momento di presenza. Il momento di presenza mi permette di osservare con un grado di separazione, e di vedere forse che sono identificato mentre parlo. Posso ora assaggiare senza dubbio il sapore dell’identificazione. Andando avanti con l’osservazione potrei vedere cosa c’è dietro, forse considerazione interna, o una caratteristica come la vanità. Altri sapori indubitabili che si fissano in noi.
Anche il gesticolare degli altri potrebbe arrivare a darmi uno shock, e potrebbe farmi vedere come chi parla davanti a me sia identificato. Il sonno ha così il potere di svegliarci.
Lavorare sinceramente con un piccolo scopo anche solo per una settimana, cambia inevitabilmente il proprio livello di essere. Che ‘vada bene’ o che ‘vada male’ (secondo la parte di noi da cui vogliamo separare dal senso di ‘Io’) andrà sempre bene: la regola di base è quella di non giudicare ciò che osserviamo. Se lo facciamo ritorniamo al livello da cui ci vogliamo sollevare. Anche fallendo nei piccoli scopi, e non giudicandoci, cominciamo a muoverci lungo la linea che porta alla creazione dentro di noi di un io osservatore, che poi si sviluppa con l’aiuto di una scuola in maggiordomo interinale e maggiordomo.
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